I pescatori molfettesi nel 1901. Di Corrado Pisani

 

I pescatori molfettesi nel 1901. Di Corrado Pisani

 

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Molfetta, 15/10/2025


I Molfettesi all’inizio del XX secolo consideravano la classe dei pescatori come una razza a parte. Il pescatore molfettese non aveva nulla in comune con quello chioggiotto o con quello della costa sorrentina, non aveva la poesia della laguna, nè tantomeno il costume caratteristico dei pescatori napoletani.
Senza il tradizionale berretto di panno nero coperto dalla tela cerata e con visiera, che lo distingueva quando scendeva da bordo, vestiva nello stesso modo di qualsiasi cittadino.

Il dialetto dei pescatori si allontanava da quello dei suoi concittadini, perchè cambiava le vocali. In special modo la “i” e la “u”, tanto che pronunziava “ai” invece di io, e “tau” invece di tu.

Condividiamo con Voi un'altra ricerca, realizzata dal nostro amico Cav. Corrado Pisani appassionato della storia molfettese, dedicata alla preziosa figura del "pescatore molfettese", un lavoro che ha reso orgogliosa la città di Molfetta. Un importante contributo alla memoria collettiva della nostra comunità che noi dell'Associazione Oll Muvi, ospitiamo sul nostro sito web "I Love Molfetta". Buona lettura.


Diffidente per natura, analfabeta in genere, per tradizione, e per la vita che sin dalla tenera età conduceva sul mare, era oltre ogni dire furbo. Pirata in navigazione, sfidava gli elementi senza paura, ma giunto in porto era indolente sino alla infingardaggine, la sua prima cura era quella di spogliarsi degli abiti di bordo, per comparire (molf. chembaràië).

I pescatori di Molfetta si dividevano in marinai di barchette da pesca (varcheceddàre) e marinai di paranze da pesca (parènzùele). I primi erano quelli che pescavano con le barchette a poca distanza dal litorale; i secondi navigavano sulle bilancelle, che accoppiate formavano la paranza (parènze).

Quest’ultimi utilizzavano il metodo di pesca con la rete a strascico a tutti nota, chiamata rète, e con essa rastrellavano completamente il fondo del mare in ogni stagione; gli altri conoscevano ed adoperavano i seguenti attrezzi: la tartanella (tartènìedde), rete a strascico più corta della tartana (sciabica), che veniva tirata da un solo battello o a mano da terra; la “cannizzata” che era una rete tenuta assieme dalle canne ed aveva la forma di una corona circolare; si adoperava per i cefali o muggini; la rete degli asini, si adoperava per i dentici, saraghi e orate. Era a maglia grossa, guarnita come il tramaglio, e di altezza doppia di questo; le “pare”, servivano per gli sgombri e le occhiate. Erano senza fodera ed avevano la stessa maglia della rete degli asini; le “massare” venivano adoperate per le vope ed i cefali. Erano senza fodera ed a maglia più piccola delle pare; gli spedoni (o budelli) si adoperavano per le sardine ed erano a maglia ancora più stretta delle precedenti; le tramagliate (ntramècchiate) e le tramagliatelle (ntramèchiatedde) si adoperavano per scorfano e triglia. Erano a tre fodere ed a maglie più o meno sottili; il “conzo” (cùenze) o parangaro (parancaro), corrispondente al palamito; le spèrte e catatère erano le lenze e gli ami; la focina era la fiocina; le nascite erano le nasse.

Le specie di pesci pescate nelle acque di Molfetta erano (e sono):

- le triglie (trèg’g’ë), di due tipi ossia triglie minori o di fango (t. a pènnë); triglie maggiori o di scoglio (t. a kapë tònnë), che si pescava in poca quantità. Il novellame di agosto è chiamato gëstënèddë o aghëstënèddë (agostinella);
- i saraghi o saraci (sàrgè ; s. kapën’òërë, ‘testa nera’);
- le occhiate (ac’c’atë);
- il pesce S. Pietro (pèššë sèmbìëtte) molto simile all’orata;
- lo scorfano (scròfënë);
- il palombo (pènnë, palùmmê);
- l’evope o boga o bopa o vopa (vòëpë);
- gli sgombri (skrùmmë);
- le sarde o sardelle o sardine (sàrdë);
- i merluzzi, in dialetto chiamati nùzzë fino alla lunghezza di 30 a 40 cm.; oltre tali dimensioni vengono chiamati papändúënë (o papèndùënë), sinonimo di ‘sciocco’, appellativo che si dà in segno di spregio forse perchè la carne di tali merluzzi è stopposa ed insipida.

Abbondano altresì i polipi e, in aprile e maggio, quelli di piccole dimensioni vengono per ore intere sbattuti in terra onde renderli teneri; vengono chiamati pulpetìëddë cazzate o p.’a tènèrìëddë, e si mangiano per lo più crudi come i calamaretti e la fragaglia che viene detta mëròschë, pesciolini tenerelli di varie specie, che poteva anche includere le triglie novelle.

In maggio e giugno abbondano le sardine di piccole dimensioni che vengono chiamate sarakiëddë; si pescavano a tonnellate e costituivano un alimento molto ricercato dai poveri per il suo vile prezzo (talvolta, sino 5 centesimi al Kg.). Le scorpacciate di sarakiëddë crude erano non di rado causa di malattie viscerali che avevano le forme e le conseguenze dell’ileotifo.

La pesca molfettese non dava seguito a nessun tipo di industria (salagione od altra maniera di conservazione). Soltanto gli equipaggi che ritornavano dalla pesca all’estero facevano seccare il prodotto della pesca fatta in viaggio, per provvista delle famiglie.

Il pescatore molfettese incominciava sin dalla tenera età ad abituarsi al mare, e verso gli otto anni accompagnava il padre alla pesca. Era un privilegio del Compartimento marittimo di Bari l’imbarco dei ragazzi al disotto dei dieci anni, senza il libretto di matricola; e serviva ai Molfettesi per sottrarre una o più bocche alla famiglia ed abituare i ragazzi a salire sul pennone per serrare la vela.

I mozzi pescatori venivano chiamati uègnòene sino a quando erano in grado di arrampicarsi fino alla penna del pennone; diventavano poi spendòene verso i 15 anni, e non potendo più giungere alla estremità del pennone, seguivano i uègnòene nella parte più bassa del pennone, in prossimità della coperta. Diventavano poi giòvene e restavano tali fino verso i 18 anni, poi diventavano marinari.
Al giòvene era affidata in porto la custodia delle bilancelle, ed i mozzi dovevano dormire a bordo, mentre i marinari dormivano alle loro case, e venivano chiamati per l’ora dell’imbarco da un individuo che conosceva le abitazioni dei componenti l’equipaggio di una paranza.

Gli armatori, in massima, erano essi stessi pescatori che esercitavano a bordo il loro mestiere come i marinari; però ve ne erano di coloro che non essendo pescatori si facevano armatori per rifarsi dei capitali dati ad interesse per l’acquisto ed armamento delle bilancelle.

L’equipaggio della bilancella era composto in media di otto persone per la pesca nel distretto, di dieci per quella fuori distretto ed all’estero. Per ogni paranza vi era poi, oltre ai capitani di bandiera o padrone di carte (che corrispondevano al conduttore preposto al comando ed al quale era intestata la licenza, ed al marinaro autorizzato al comando annotato sul ruolo di equipaggio) un padrone di pesca. Era (ed è) questo un marinaro, pratico dei luoghi ove il pesce abbonda, che dirigeva (e dirige) la pesca. Nello Stato guadagnava in più della sua parte 100 lire all’anno: all’estero per una campagna di pesca poteva guadagnare fino a 150 e talvolta 200 lire all’anno.

L’arruolamento, sia per lo Stato che per la pesca all’estero, era sempre alla parte. Dell’utile, detratta la spesa per il vitto e la retribuzione alla cassa invalidi se le bilancelle navigavano con ruolo, ad ogni paranza (o coppia di bilancelle), spettavano undici parti; il resto andava diviso fra l’equipaggio in ragione di una parte per ciascun marinaro, e di ½ o ¾ di parte per ciascun mozzo al di sotto dei 18 anni, a seconda dell’età, del tempo che esercitava la pesca, e della capacità a bordo. Ai ragazzi principianti spettava il solo vitto. Questo era costituito da pane biscottato che s’imbarcava ogni settimana, per la pesca. nello Stato: per tutta la traversata, se la pesca era all’estero, di vino più o meno buono e dei pesci pescati e i quali potevano mangiarsi crudi.

Ogni domenica, e talvolta ogni quindicina, l’armatore rendeva i conti e veniva fatta la ripartizione dell’utile. Con l’economia portata sulle provviste della settimana o della quindicina l’equipaggio faceva la colonna, ovvero consumava l’economia acquistando vino, pane, formaggio ed altro.
Il pescatore molfettese era raramente ubriaco; era abituato a bere e sopportava bene il vino. La pesca esercitata dalle barche di Molfetta, nello Stato, fuori distretto, permetteva ai pescatori di sostentarsi a bordo e di guadagnare circa 300 lire all’anno per il mantenimento delle famiglie. Serviva poi specialmente a Procida e Gaeta a fare arricchire i negozianti di pesce all’ingrosso.

La pesca all’estero, nelle epoche più fortunate, faceva guadagnare 400 lire o poco meno ad ogni pescatore per il mantenimento della famiglia. Però questo guadagno annuo, che può sembrare basso, era aumentato con la parte guadagnata dai mozzi, i quali sino all’età di 18 anni circa non tenevano nulla per sè e contribuivano alla migliore esistenza delle famiglie. In pratica, le famiglie dei pescatori erano fortunate quando c’erano più figli maschi.

Del guadagno che gli armatori ricavavano dall’impiego dei loro capitali, non era possibile stabilire la cifra esatta; però, data la media di guadagno annuo fatto da ciascun pescatore in lire 350 tra la pesca all’estero e quella nello stato, agli armatori sarebbero rimasti parti 11×350 = Lire 3.850. Da questa cifra bisognava detrarre: l’abbonamento al dazio pesce in lire 640 annue; il 20% circa per pagare gli interessi dei capitali impiegati per l’armamento delle bilancelle, cioè lire 770 circa; e il 50% circa ovvero lire 1.925 per l’ammortamento del capitale d’impianto, per la ricchezza mobile, e per provvedere alla manutenzione e rinnovamento degli attrezzi. Il guadagno netto, pertanto, che l’armatore mediamente ricavava da una coppia di bilancelle era di lire 625 circa, che rappresentava 1’8,92% d’interesse ricavabile dal capitale di lire 7.000, costo medio di due bilancelle.

Dalle cifre esposte si capisce che la condizione degli armatori poteva dirsi florida. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Gli armatori, tranne pochi, per l’acquisto delle bilancelle e per il loro armamento ricorrevano al credito, e questo col tasso dell’8% pagabile anticipato ogni quattro mesi, assorbiva un’altra gran parte dell’utile netto, e non di rado gli interessi finivano per assorbire il capitale. D’altra, parte: la proprietà era frazionata ed i passaggi di proprietà delle bilancelle, o di carati di esse, si succedevano rapidamente. La buona fede dei pescatori molfettesi era molto profonda e ben radicata; però accadeva che i fornitovi di attrezzi erano costretti a sequestri conservativi ed a sottostare a perdite non indifferenti, senza talvolta potere ricuperare il capitale, che del resto era abbastanza rimunerato dagli interessi.

Terminiamo con il parlare dei varcheceddàre. Questi, a differenza dei parènzùele, erano più modesti nelle loro aspirazioni, più affezionati al mare e alla loro barchetta, meno fortunati talvolta, a seconda delle annate e delle stagioni. Molti di essi erano proprietari della barchetta (varcheceddè) e con essa vivevano sul mare e per il mare. Sull’imbrunire andavano (e vanno ancor’oggi) a calare le reti nei luoghi da loro ben conosciuti, e alla mattina le salpano, per poi recarsi al mercato e vendere il prodotto più o meno abbondante, dal quale dipendeva l’esistenza delle famiglie. Non erano molti e, tranne qualche annata scarsa, vivevano agiatamente perchè il lusso dei parènzùele non li coinvolgeva.

Questo scritto, da me modificato (anche nei termini dialettali), è opera dell’Ufficiale di Porto di II Classe Annibale Mundula, Comandante del porto di Molfetta nel sessennio 1896-1901. Egli chiudeva questa relazione con un suggerimento al ceto marinaro molfettese, credente in San Corrado e nella Madonna dei Martiri, invitando lo stesso a non affidarsi solo «al miracolo … per pescare lo storione allorchè in settembre ricorreva la festa della Natività di Maria Vergine», ma di avvalersi anche dell’aiuto di persone colte e con incarichi autorevoli, per chiedere la promulgazione di una legge sulla pesca più completa rispetto a quella allora vigente, in maniera che avesse potuto formare una classe più agiata e meno negletta, capace di contribuire fattivamente alla ricchezza nazionale. Suggerimento che trovò attuazione negli anni successivi ai due Conflitti mondiali.

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