Molfetta, 03/10/2018
Rolling Stone è senza dubbio il più importante e autorevole magazine di cultura musicale, qualche giorno fa ha intervistato l'artista molfettese, Michele Salvemini, in arte Caparezza. Condividiamo parte della bella e interessante intervista...
Nella nostra ultima intervista raccontavi come Prisoner 709 fosse il tuo disco più intimo, quasi una seduta di autoanalisi in musica. Com’è stato portare qualcosa di così personale in tour per mesi, metterlo in piazza?
Dico la verità: non sapevo dove sarebbe arrivato il disco. Quando ho capito che stavo attraversando un momento particolare – forse è semplicemente l’età, eh! – ho deciso di scrivere più di me, smettere con la predica. Volevo prendermi una pausa dalla critica sociale, per passare ad analizzare il pulpito. È interessante, perchè da quando puoi twittare l’arte della critica è a portata di tutti. È pericoloso esprimere sempre un’opinione: se riguarda qualcosa che non hai vissuto, quando devi affrontare quella situazione rimani sorpreso.
Così hai cominciato a esplorare il tuo Io.
Quando trovo un argomento per un disco, mi informo. L’avevo fatto per Museica e l’ho fatto con questo: mi sono letto Freud, Jung, i grandi della psicologia. Ma mica potevo mettermi a insegnare psicologia. Jung e Freud erano dei tramite per parlare di me.
Quanto è stato difficile aprirsi?
È stato strano, perchè sono troppo introverso per farlo del tutto. Quando scriviamo, tendiamo a fare i pomposi. Non volevo rischiare di autocommiserarmi. Specie davanti ai miei fan.
Io posso raccontare di aver chiuso uno dei tuoi concerti. Suonavi al Palais di Saint-Vincent e io dovevo mettere i dischi, il problema è che quando hai finito la gente si è smaterializzata e sono rimasto solo come uno scemo.
Mi spiace! Ma non va sempre così, a volte si fermano: ai festival, per esempio. Però, dopo due ore che li fai saltare, è normale che vogliano andare a casa. La cosa bella è che di solito i Dj che si esibiscono prima e dopo di me mischiano rock e classic rap.
Un po’ come te, nei tuoi dischi.
Sono nato nel ’73 e ho scoperto il rap a 13 anni, il rock molto prima. I miei amici erano tutti metallari, e quando ho sentito per la prima volta i Run DMC non ce n’era uno che ascoltasse rap in tutta Molfetta. Qualche mese dopo, ho visto un ragazzo con la scritta “Run DMC” a pennarello sullo zaino Invicta, e ho scoperto di non essere solo. Ma ho dovuto aspettare i 16 anni prima di trovare qualcuno con cui parlarne.
In numerose interviste hai celebrato Frankie Hi-Nrg, per aver indirizzato la tua carriera.
Confermo: Fight da Faida mi ha cambiato la vita. Lui aveva la metrica, il flow, le rime, tutto. E poi aveva molta meridionalità, incitava a combattere la mafia, le faide. Mi ha sconvolto l’esistenza. Il rap italiano è arrivato quando avevo già compiuto 18 anni, il primo disco hip hop nella nostra lingua che ho comprato è Terra di nessuno degli Assalti Frontali. Prima i nostri rapper cantavano in inglese, e io non capivo perchè.
Da dove hai preso invece la tua teatralità?
Quando ho cominciato a suonare avevo una band da pub, strumenti e basta. Poi ho cominciato a usare una lucina, che accendevo e spegnevo a tempo durante i pezzi. Quella cosa mi gasava, e ci ho preso gusto. Il líder máximo che mi ha spinto a mettere da parte la band da pub e creare delle scenografie è stato un pupazzetto, di quelli che si mettono a ballare se schiacci un tasto. L’avevo camuffato da me: gli avevo messo la parrucchetta, il pizzetto e lo facevo ballare su Jodellavitanonhocapitouncazzo. Il ritornello di quel pezzo (secondo singolo di Verità supposte, del 2004, ndr) ha uno jodel registrato: non potendo cantarlo io, ho escogitato quello stratagemma per farlo ballare e cantare al pupazzo. Catalizzava l’attenzione del pubblico, mi piaceva l’idea di dare vita a una grande stanza dei giochi sul palco. Da lì in poi mi sono fatto prendere la mano.
Con il tempo hai fatto le cose più in grande.
Grazie al cielo, quando aumenta il seguito, aumentano anche le risorse. Spendo tutto nelle scenografie, spesso ci metto soldi di tasca mia.
Qual è la cosa più allucinante che ti è capitata durante il lungo tour di Prisoner?
C’è stata una signora a Cagliari che ha passato tutto il concerto con in mano un libro, credo fosse di Shakespeare. Non ha mai alzato la testa per vedere lo spettacolo, nemmeno una volta. La cosa assurda è che stava in prima fila, quindi aveva fatto ore di coda. Poi mi hanno detto che probabilmente era una specie di protesta delle Sentinelle in Piedi, per via delle mie posizioni progressiste, di certo molto diverse dalle loro sulle unioni omosessuali. Voglio sperare sia così. Ogni volta che li vedo nelle piazze con i libri in mano, mi faccio il viaggio che siano dei turisti dispersi, che stanno leggendo la mappa della città per capire dove sono finiti.
E come va con l’acufene? Riesci a conviverci, ormai?
È perenne, tocca farlo per forza. Non potendosene liberare, devi affinare la nobile arte della distrazione. Un po’ come quelli che vivono di fronte alla stazione dei treni, e fanno finta che il rumore non ci sia.
Quanto è tristemente attuale un pezzo come Vengo dalla Luna?
È sempre attuale. È un tasto dolente per me, anche perchè sono appena sceso da quel taxi, ricordi? Queste cose le sento particolarmente, perchè sono meridionale. Non vorrei essere così visionario, ma nel 2006 ho scritto Inno Verdano, un brano in cui i meridionali cominciavano a votare Lega. Dodici anni dopo l’hanno fatto per davvero. Il giorno esatto in cui sono arrivato a Milano per studiare, ho incrociato un treno di leghisti che cantavano canzoni contro quelli del Sud. Sono rimasto agghiacciato.
Cosa ti pesa di più, di questa situazione?
L’ipocrisia. Questa nazione rivendica radici cristiane, ma quando si tratta di accogliere il prossimo tanti saluti alle radici. A inizio ’900 si addensavano in Europa fermenti artistici straordinari, e tutto ci si aspettava fuorchè una guerra mondiale, poi il fascismo e ancora un’altra guerra. Per cui sto sempre sul chi va là. Le cose non accadono da un momento all’altro: questi uomini strisciano e conquistano spazio lentamente, e un bel giorno ti ritrovi nella merda.
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