Molfetta sleeping beauty |
MOLFETTA 03/06/2014 Racconti della Puglia: questa settimana toccano Molfetta All’una Attilio si piegò in due sul terriccio bollente, accanto ai fichi d’India. Tossì e quasi vomitò le pillole che aveva appena infilato in gola. Un fumo azzurro e denso si innalzò dalla campagna, in direzione del mare, poi arrivarono le modelle. Il Suv dell’agenzia le aveva caricate all’aeroporto mezz’ora prima, per poi buttarsi sulla tangenziale e imboccare l’uscita per Molfetta. Sulla strada interna, in direzione di Terlizzi, Hilde si era sporta dal finestrino per sentire più forte l’odore di catrame. Era apparsa un’edicola sul bordo della carreggiata, una Madonna fiorita dai colori incendiari, un totem – pensò Hilde– nel deserto messicano. Il Suv aveva voltato a destra, abbandonando l’asfalto per barcollare incerto sul sentiero sconnesso e petroso che conduceva a Torre Marcello, nella contrada di Mino. Il sobbalzare dell’auto aveva scosso Sue e Lena dal breve sonno in cui si erano assopite. All’ingresso del casale, un cancello di ferro tenuto in piedi da un immenso muro a secco, il driver frenò di scatto e invitò le ragazze a scendere. Attilio si avvicinò continuando a tossire, il pugno sudato e grinzoso contro le labbra ritratte nel ceruleo del viso. Le osservò uscire una alla volta: il caschetto nero di Sue, le lentiggini ramate sulla pelle di Lena, il sole accecante dei capelli di Hilde. Tutte e tre pallide e prive di forme, a malapena maggiorenni. Era quello che aveva richiesto. «È un piacere conoscerla», fece Sue tendendogli la mano, «Siamo onorate di poter lavorare con lei». «Un grande onore», aggiunse Lena, togliendo gli occhiali scuri. Attilio fece un passo indietro, come a volerle inquadrare tutte e tre assieme, poi chiese: «Da quanto non dormite?». «Ventotto ore, come d’accordo». «Bene». Liquidò il driver e invitò le ragazze a seguirlo. «Sono malato», disse, «È evidente. Sono anche vecchio, ma la vecchiaia in sè non ha importanza». Questo posto, Torre Marcello, apparteneva a mio padre e prima di lui a mio nonno, quando non era altro che terra, ulivi e un cumulo di sassi dove conservare il raccolto. È esattamente quello che sto cercando di fare adesso. Le mie foto sono state esposte a New York, Londra, Parigi, Tokyo. Sono stato premiato, gratificato, conteso, omaggiato in ogni lingua esistente. Non ricordo nemmeno i nomi di tutti i luoghi in cui ho dormito. Ma ora che sta per finire, sono tornato. Non ho avuto scelta, è qualcosa che dovevo fare. Tornare. Riderete forse, ma c’è una specie di destino, di congiura, chiamatela come volete. Questo è l’ultimo servizio che faccio». Le ragazze rimasero immobili a fissarlo. Non lo capivano, forse non potevano. Erano parte di un mondo in cui tutto era ancora possibile. Tanto meglio, pensò Attilio, e distolse lo sguardo, poi sfiorò col suo quello di Hilde, dietro le altre, e allora si accorse di quegli occhi nordici, disumani, impastati col ghiaccio. Due rocce fredde in cui l' incomprensione assumeva le forme terribili del rifiuto. «Perchè ha chiesto che non dormissimo da più di ventiquattr’ore?», domandò Sue accendendosi una sigaretta. «Vi ho pagato abbastanza». «Oh, sì», sbadigliò lei. «Mettiamola in questo modo: ho comprato il vostro sonno. Ora dovrete dormire per me. La villa è vostra. È vostro il giardino, il frutteto, il campo di ulivi oltre la recinzione. Vagate e addormentatevi dove volete. Da sole, insieme, come vi viene. Vi darò degli abiti bianchi e li indosserete, qualcosa d’impalpabile, di trasparente, i capelli sciolti. Dovrete cadere dal sonno, morire dal sonno, e io vi fotograferò allora, svenute, prima che venga sera». «Perchè?»– chiese Hilde, e furono le sue sole parole – «Cosa ha bisogno di dimostrare?». Fu semplice per Sue e Lena addormentarsi nel torpore del pomeriggio. Attilio le sorprese supine accanto all’albero delle prugne, poggiate l’una sulle gambe dell’altra fra le spine dei fichi, stese sulle scale di pietra bianca alle porte del casale. Ogni foto che scattava sembrava allungargli il respiro, sollevarlo dal peso del corpo che muore, dalla paura del corpo che muore. Era questo che voleva. Sue e Lena erano così giovani e inermi, sembrava avessero disimparato il respiro. Attilio provò un brivido di eccitazione sessuale. Desiderava porre fine al proliferare inesausto di tutta quella bellezza, eternarla, guardare la morte in faccia prima che fosse lei a guardare lui, e fermarla. Fece per accarezzare la testa di Lena, i capelli sparsi come albicocche sulla pietra, quando si rese conto che il segreto di quell’eternità rubata dimorava altrove. Hilde era in cima alle scale e lo guardava, grave. Si mise a correre verso il muro di recinzione, poi in aperta campagna, scalza, sul terreno rosso degli ulivi. Attilio la seguì a fatica, col fiato corto. La perse di vista, per poi ritrovarla piegata nella cavità di un tronco millenario, a occhi chiusi. Il segreto era Hilde. Attilio pensò che se fosse riuscito a fotografarla in quell’istante – mentre immobile e stanca riparava la pelle bianca, cresciuta nel buio d’inverni senza fine, dal sole implacabile del Sud – solo allora si sarebbe potuto salvare. Impugnò la Canon con la mano che tremava, la puntò verso l’albero, ma non fece in tempo a inquadrarlo. Hilde spalancò gli occhi. «Non riesco a dormire. Non ci riesco. Mi dispiace». L’insonnia di Hilde si prolungò fino a sera. La ragazza vagò come uno spettro finchè venne il buio e Attilio continuò a inseguirla, disperato. A volte, preso dalla stanchezza e dal caldo, si sedeva su di una panchina e mandava giù una pillola dopo averla leccata, come fosse zucchero. Dopo cena, le modelle si chiusero ognuna nella propria stanza. Hilde era in trappola, pensò Attilio, sentendola sbattere la porta in cima alle scale. Avrebbe solo dovuto aspettare la prima luce del giorno. Sarebbe rimasto in piedi a vegliare per non correre alcun rischio, poi, all’alba, avrebbe salito in silenzio i gradini, aggrappato alla ringhiera arancione. Sarebbe entrato nella camera di Hilde mentre lei ancora dormiva – la finestra spalancata, i raggi polverosi del mattino – e l’avrebbe immortalata, priva di sensi e vinta, per sempre. In quell’angolo di terra, lui l’avrebbe fatta sua. Sedette sulla poltrona, si versò del whisky da una vecchia bottiglia e aspettò, ma dovette trattarsi di una combinazione cattiva perchè presto cadde in un sonno ottuso. Quando riaprì gli occhi erano quasi le cinque. Il sole cominciava a premere contro i vetri di Torre Marcello. Attilio infilò al collo la macchina fotografica e si precipitò al piano superiore. Hilde non c’era. Il letto stretto in ferro battuto, alto contro la parete scrostata, era vuoto e intonso. Le lenzuola bianche tirate sul cuscino e nessuna traccia di lei. Attilio tremò e guardò fuori dalla finestra, la distesa dei papaveri in fiamme. Poi si voltò. Vide le sue foto appese ai muri, foto dal valore inestimabile, incorniciate di nero ed esposte lì in fila come un crudele gioco di specchi. Le strappò dalle pareti, una alla volta, si mise a gettarle per terra, a calpestarle furioso, e più si abbatteva contro quel succedersi inesausto di memorie, più se ne sentiva circondato e oppresso, incapace di accettare la grandezza del proprio fallimento. Se ne accorse solo alla fine, quando i frammenti di vetro avevano coperto ogni angolo della stanza. Accanto all’armadio c’era una porta murata, una di quelle porte che forse da piccolo Attilio avrebbe aperto, ma che da quando era tornato non aveva avuto nemmeno la forza di notare. Era socchiusa. La spalancò e una scala ripidissima e buia lo condusse verso l’alto, verso un’altra porta nera. Fece molta fatica a salire fino in cima. Quando finalmente raggiunse la seconda porta, capì. La torre. Era lassù che avrebbe trovato Hilde. La vide stesa, bianca, inondata dal sole. Indossava la sottoveste a fiori e le sneakers, un braccio teso sopra la testa, l’altro a sfiorare le cosce nude. La campagna di Molfetta, dall’alto, brillava nel silenzio come un mare verde. Hilde dormiva. continua su: "Inchiostro di Puglia" questo è il link www.inchiostrodipuglia.weebly.com |
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