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Storie di un veliero molfettese costruito nel 1862


Storie di un veliero molfettese costruito nel 1862 MOLFETTA 06/08/2024

Il 13 dicembre 1881, tra le ore 8 e 9 pomeridiane, il trabaccolo (traboccolo) molfettese denominato «S. Maria dei Martiri», co¬mandato da Giovanni di Gioia, a causa di un fortunale di scirocco-levante, fu costretto all’approdò nella rada di Manfredonia.

Continuiamo a condividere un' altra ricerca, realizzata dal nostro amico Corrado Pisani, un grande appassionato di storie molfettesi, noi dell'Associazione Oll Muvi, ci impegniamo nella diffusione, affinchè non si perda la memoria, attraverso il sito web "www.ilovemolfetta.it”.

Dopo le operazioni di ormeggio in porto, padron de Gioia fu interrogato dal capitano dall’imbarcazione doganale ivi presente. Alle domande egli rispose di essere partito da Frappano di Dalmazia (intendi Trappano ossia Trpanj in Croazia) e di essere diretto a Patrasso con zucchero, pesce salato, cartoni e mattoni, come pure di essere entrato in porto per via del cattivo tempo. L’indomani il trabaccolo era già partito. Da Manfredonia, diretto a Molfetta fu inviato un telegramma a Corrado Cozzoli dove era scritto: «Arrivato a salva¬mento; danni riparabili al timone; senza pratica».

Intorno alle tre e mezzo antimeridiane del giorno 18, questo stesso trabaccolo diede fondo all’ancora nelle acque di Molfetta e rasentava il lido a circa 200 metri da terra con le vele ammainate. Gli agenti daziari notarono un gran movimento di barche, che andavano e venivano da Molfetta vecchia al trabaccolo. Subdorato che si stessero verificando operazioni di contrabbando, il luogotenente della dogana Giuseppe Bosso volle recarsi a bordo del trabaccolo. Recatosi sulla banchina chiamò l’unica barca presente in porto, appartenente a Mauro Amato, il quale non volle prestarsi alla richiesta. Costretti a viva forza, i componenti della barca, iniziarono a vogare con tanta lentezza che le guardie doganali s’impossessarono dei remi ed iniziarono a remare più velocemente, mentre l’Amato ed i suoi compagni gridavano ad alta voce, che non potevano raggiungere il trabaccolo, perchè tenevano gettate in mare le reti. Evidentemente gridavano nell’intento di comunicare l’arrivo della forza doganale. E questo allertare il trabaccolo aveva già fatto levare l’ancora e dato inizio alle operazioni di spiegare le vele.

Salito a bordo, il tenente Bosso interrogò il capitano di Gioia, il quale dichiarò di essere diretto a Durazzo con un carico di vario genere. Il te¬nente, però, notò che il boccaporto era aperto e sulla copera erano presenti molti sacchi di zucchero. Il “manifesto” di bordo, una volta disuggellato, annotava la presenza di un carico composto da 439 sacchi di zucchero raffinato, 18 sacchi di zucchero ridotti in tre botti, 10 sacchi di pepe, tre casse di sapone, 10 barili di pesce salato, uno di salamoia ed altri generi diversi.

Numerati i sacchi, i barili, e le casse che si tro¬vavano tuttora nella stiva, e quelli trovati sopra coperta, si rinvennero 241 sacchi di zucchero, in luogo di 449, 8 sacchi di pepe in luogo di 10, 2 casse di sapone in luogo di 3. Riconosciuta l’esistenza del contrabbando, il tenente ordinò al capitano di Gioia di dirigersi in porto a Molfetta, ma questi oppose un netto rifiuto dicendo che doveva raggiungere Durazzo. Mentre si discuteva in maniera concitata, una barca, carica di sacchi di zucchero, si avvicinò al trabaccolo, domandando al di Gioia dove si doveva portare quello zucchero. Il di Gio-ia rispose di allontanarsi. Il tenente ordinò a due guardie di inseguire quella barca, serven¬dosi della stessa barchetta di Amato, con la quale erano andati a bordo, ma non fu possibile raggiungerla. Il capitano de Gioia si dovette arrendere alla forza doganale ed entrò in porto.

Mentre si procedeva ad istruire il caso, nella notte del seguente 23 dicembre, un’ora circa dopo mezzanotte, due Carabinieri in pattuglia notarono che nella strada di Sant’Orsola i fanali pubblici erano spenti, mentre nelle vie adiacenti erano tutti accesi. Notarono che in un portone, sito di fronte al magazzino dei fratelli Viesti, stavano nascosti un certo Ferdinando Gambardella e quel Corrado Cozzoli, al quale era stato diretto il telegramma spedito da Manfredonia. Si accorsero, che il magazzino di Viesti era illuminato nell’interno e di lì proveniva un sommesso vocio. Spinsero l’imposta socchiusa e sorpresero un certo numero di facchini scalzi, che lavoravano intorno a molti sacchi di zucchero. Avvisati di questo fatto gli agenti doganali ed altri carabinieri, furono fatti chiamare i fratelli Viesti. Gli stessi, interrogati a tal proposito risposero, che quei sacchi contenevano zucchero ritirato da Bari. E richiesti loro se con¬tenessero esclusivamente zucchero, ri¬sposero che forse vi si poteva trovare qualche sacco di pepe.

Divenuto giorno, il magazzino fu sottoposto ad un accurato controllo, e vi fu-rono rinvenuti 149 sacchi di zucchero raffinato, taluni con le marche CA. Wisterhitz (intendi Wusterwitz), altri con la lettera Z, altri segnati OC ed altri NB, marche corri-spondenti a quelle riportate sopra i sacchi sequestrati il 18 dicembre. Fu inoltre osservato che sopra i sacchi sequestrati a bordo, verso la bocca si leggeva la parola Trappano, e che questa parola non si leggeva più su alcuni sacchi trovati nel magazzino, per¬chè quella parte della tela in alcuni era stata tagliata, in altri ripiegata.

Furono eseguite due perizie, l’una su i sacchi, l’altra sullo zucchero. Con la prima fu accertato il taglio di un buon numero di sacchi, tagliati come già detto o ripiegati per far sparire la parola Trappano. Fu rilevato che queste operazioni avevano rimpicciolito i sacchi, i quali, invece di presen¬tare la dimensione di centimetri 95 per 53, erano ridotti a 78 per 45. Di più le cuciture necessarie all’uopo si scorgevano eseguite con spago nuovo; sopra qualche sacco fu trovato incollato qualche “polizzino” di dogana, mentre sopra altri si vedevano frammenti di polizzini simili. La tela dei 241 sacchi seque¬strati a bordo e dei 149 sequestrati nel magazzino fu riconosciuta identica, come identica era la cucitura, meno in quelli accorciati.

Il 18 dicembre al capitano di Gioia era stato richiesto di spiegare la mancanza di quella quantità di ca¬rico rispetto a quella riportata nel ma¬nifesto e cioè di 198 sacchi di zucchero, di 2 sacchi di pepe e di altro. Egli dichiarò che a causa della burrasca aveva dovuto gettare in mare parte del carico, come si scorgeva dalle avarie sul legno, avendo dovuto rompere due paratie e per praticare il getto di 250 sacchi di zucchero ripo¬sti nella stiva, giacchè questa non aveva alcuna comuni¬cazione con le camere del capitano e della ciurma. Una perizia accertò che c’erano più vani di comunicazione e che la schio¬datura di alcune tavole risaliva a due o tre mesi prima.
Il tribunale di Molfetta con sentenza dell’11 agosto 1882 condannò l’intero equipaggio a tre anni di carcere per ciascuno come pure Giuseppe Viesti e Michele Viesti, quali complici necessari in contrabbando di zucchero, pepe ed altri generi importanti il dazio di 27.038,31 Lire, commesso in unione tra loro, e dispose la confisca del trabaccolo. L’equipaggio era composto da Giovanni de Gioia (n. 24 giugno 1838), Saverio Minervini, Maurangelo de Gioia (n. 13 dicembre 1826 - m. 17 dicembre 1900), Giuseppe Caffarella (n. 8 marzo 1851), Giuseppe de Felice (n. 23 marzo 1839), Tommaso Gallo (n. 15 agosto 1829), Giuseppe Pisani (n. 8 settembre 1855) ed il mozzo Giuseppe Cusmai (minore di età, nato a Bisceglie il 28 maggio 1869). Contro questa sentenza ricorsero tutti i condannati.

La Corte di Appello di Trani, Sezione Promiscua, nell’udienza del 28 giugno 1883, Presidente Cav. Domenico Frugiuele, considerato che la pena inflitta dai primi giudici era stata, con molta mitezza, commisurata al minimo, a parziale riparazione della prima sentenza, dichiarò «non essere provato che Giuseppe Cusmai fosse colpevole del reato a lui imputato e lo assolse. Confermò in tutto il resto la sentenza, e rinviò gli atti al Tribunale di Trani per la esecu¬zione. Condannò in solido gli appellanti alle maggiori spese del procedimento». Presentato ricorso in Cassazione, la Sezione Penale (Presidente Francesco Ghiglieri), con sentenza n° 167 emessa in data 1° febbraio 1884, rigettò il ricorso presentato dai condannati contro la sentenza della corte d’appello di Trani e condannò i ricorrenti alla multa di 150 lire e nelle spese, ed ordinò a favore del pubblico erario la liberazione del fatto deposito.

Intanto, il 12 dicembre 1882 fu eseguita una perizia per stimare il veliero e redigere l’inventario degli attrezzi di bordo. L’unità fu valutata in 4.091 Lire italiane. Il 26 dicembre 1882, dopo le sentenze dell’11 agosto del tribunale di Molfetta e del 23 settembre della Corte di appello delle Puglie (sezione correzionale), sedente in Trani, la Pretura di Molfetta (Cancelliere F. Ricci) pubblicò il bando per la vendita, mediante asta pubblica da tenersi nella sede della stessa (Pretura) il giorno di venerdì 19 gennaio 1883, del pielago «Santa Maria dei Martiri», della portata di registro pari a 28,79 tonnellate, posto sotto sequestro. Dopo questa prima seduta, si tennero altre due sedute, nei giorni 29 marzo e 26 giugno. Tutte e tre le sedute andarono deserte. Per altra sentenza del 14 agosto 1883, la Corte di appello delle Puglie, ordinò di procedere ad nuovo incanto per la vendita del pielago, nei giorni 25 e 26 settembre, deliberandolo, a mente dell’art. 638 del Codice di procedura civile, al maggior offerente, quando anche l’offerta fosse stata inferiore alla stima.

Il 26 settembre 1883 il bottaio Gioacchino Valente fu Domenico con gara pubblica si aggiudicò questo trabaccolo, denominato «Santa Maria dei Martiri», della capacità netta di 28,79 tonnellate e iscritto alla matricola n° 256 di Bari. Il 4 aprile dell’anno seguente (1884) il Valente rivendette il veliero per 2.300 lire a Sebastiano de Fiori fu Michele, nato a Rodi e residente a Brindisi, e Marco Sciarra di Giuseppe, nato a Rodi.

Il pielago o trabacolo era stato costruito nel 1862 a Molfetta dai maestri calafati Uva, Domenico e Berardino, padre e figlio, su committenza del negoziante Mauro Luigi Ciccolella di Antonio, del proprietario Giovanni Lorenzo Salvemini fu Raffaele e suo figlio Michele, per il prezzo di 2.250 lire. Il 31 luglio 1870 il negoziante Mauro Luigi Ciccolella vendette, per il prezzo di 1.700 lire, a suo figlio Antonio la metà di questo pielago, munito di atto di riconoscimento di Molfetta numero 90, di tonnellate 35,65 e attrezzato con due alberi.

Il 9 marzo 1872, durante un viaggio da Trieste per Molfetta, al comando di padron Mauro Cicolella, il pielago «S.ta Maria dei Martiri», inscritto al n° 90 del Compartimento marittimo di Bari, con ruolo datato 18 gennaio 1872 n. 9144 e munito di patente l° aprile 1868 n. 2808, si incagliò presso il porto di Rovigno. Riuscì a disincagliarsi trasbordando parte delle merci, operazione che costrinse il capitano a spese extra (G. Radossi, L’attività dell’Agenzia Consolare del Regno d’Italia a Rovigno dal 1872 al 1876, in Atti, Volume XXXVII, a cura del Centro di ricerche storiche, Rovigno, 2007, pp. 245-246). Preciso che a “padronizzare” (comandare) il veliero era il marinaro Mauro Luigi Ciccolella, nato in Trieste intorno al 1825 e domiciliato fin dalla sua fanciullezza in Molfetta, figlio del negoziante Antonio Ciccolella e di Caterina Pisani.

Il 9 marzo 1877, Antonio Ciccolella di Mauro Luigi (titolare di 12 carati), Giovanni Lorenzo Salvemini e Michele Salvemini (comproprietari dei restanti 12 carati) vendettero a Gaetano de Gioja fu Bartolomeo (n. 6 marzo 1822 - m. 28 luglio 1892) l’intero trabaccolo a due alberi costruito nel 1862 a Molfetta, della capacità effettiva di 35,65 tonnellate e di lunghezza 14,10 metri.

Il resto lo abbiamo già raccontato.
 


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