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Molfetta 18 Luglio 1529 un giorno da ricordare


Molfetta 18 Luglio 1529 un giorno da ricordare MOLFETTA 18/07/2022

Oggi condividiamo una ricerca storica legata al 18 luglio a Molfetta, realizzata dall'amico Corrado Pisani, storico molfettese. Noi dell'Associazione Oll Muvi, affermata nel mondo come I Love Molfetta, ringraziamo Corrado per concederci di pubblicare i suoi studi.

Una ricorrenza di quattrocento novantatrè anni fa: il “Sacco” di Molfetta. Anno del Signore 1529. Siamo nel periodo (1520-29) delle guerre d’Italia che vedono contrapposti gli eserciti dei re di Francia (Francesco I) e di Spagna (Carlo V).

Venezia, alleata dei Francesi, aveva conquistato Trani, Monopoli, Polignano e altri porti minori della fascia costiera pugliese e tendeva ad ampliare la zona occupata. Il 13 luglio 1529, a Barletta, Giovanni Contarini (comandante della squadra navale veneziana), Giovanni Vitturi (comandante supremo delle truppe venete di mare e di terra che operavano in Puglia) e Renzo da Ceri tennero una riunione nella quale decisero di compiere «l’impresa de Molfetta» per il semplice motivo che la nostra città era provvista «di gran quantità di vini».

A capo delle operazioni militari su Malpheta e Jovenazo, fu messo il Principe di Melfi, Giovanni III Caracciolo, volgarmente chiamato Sergianni (Messer Gianni).
A tarda ora del 17 luglio, a Barletta, l’armata navale ausiliaria veneziana, composta di trentaquattro navi di diverso tipo e tonnellaggio, al comando del nobile Giorgio Diedo, imbarcò mille fanti posti alle dipendenze del Capitano Federico Carafa.

Terminate le operazioni d’imbarco della truppa, le navi lasciarono il porto. Unitesi alle ventuno navi da battaglia, tutte le unità si diressero alla volta di Malfetta dove giunsero tra l’ora “due di giorno” e “terza di notte”. Inviato in avanscoperta un drappello di uomini a rivendicare il possesso della città, alla risposta dei molfettesi di non volersi arrendere «a cavali di legno» le navi veneziane iniziarono a cannoneggiare la città. Furono sparati più di 300 colpi, tanto da esaurire la dotazione di polvere da sparo.

Durante la notte, il signor Diedo, deciso ad andare avanti per raggiungere al più presto la nostra città, salì su una fregata e si allontanò dal grosso dell’armata. Giunto in prossimità della costa, con una barca si recò a riva, dove incontrò gli uomini dell’avanscoperta, i quali però non avevano raggiunto alcun risultato¬. Il gruppo dei gentiluomini veneziani si ritirò sulle galee. Ebbe poi niziò la battaglia vera e propria.

I fanti scesi dalle navi, iniziarono ad avanzare in ordine e s’impadronirono subito del borgo di Molfetta, perdendo solo una decina di uomini. Gli archibugieri si posero al riparo nei magazzini situati di fronte alla città e con un nutrito fuoco resero impossibile l’esporsi dalla muraglia. Gli assalitori, tuttavia, si resero conto che le mura erano forti e dotate di un rivellino, e che non c’erano scale che ne facilitassero la presa. A questo punto, considerando che le galee non sortivano alcun esito, il Carafa si rese conto che l’impresa sembrava persa, e, unitamente al Diedo, risalì a bordo della sua galea.

Dopo aver riposato, il Carafa nell’osservare la muraglia di Molfetta notò che un torrione (forse, quello chiamato la Galera), situato dietro la cupola della chiesa di S. Corrado (odierno Duomo), presentava due lati bagnati dal mare e un terzo collegato con il molo del porto.

Svelto il Carafa trasbordò sulla fregata, portando con sè dieci dei suoi uomini, e unitamente al Diedo raggiunse il molo. Sceso a terra con quattro compagni, si addossò dietro un muro lì posto. Il Diedo, vedendo il pericolo che correva il Carafa, decise di raggiungerlo insieme ai restanti uomini. Saltati a terra e imbracciate piccoli scudi rotondi, tutti corsero verso il torrione, e in quella direzione tirarono alcuni colpi di archibugio. Il capo di un reparto (banderaro) del Diedo - o, secondo altri testimoni, il nobile Domenico Bembo - iniziò ad arrampicarsi sul torrione e con l’aiuto di antenne (dove si legava la vela) appoggiate alla muraglia, fu il primo a raggiungere la merlatura. Inoltre, un cannoniere del Diedo tirò un colpo di falconetto in mezzo del merlo, dove era più agevole il passaggio per il banderaro, il quale, spinto a forza di lunghe armi (piche), riuscì a salire sopra certe tavole che coprivano il torrione preso d’assalto. Una volta salito sul torrione, il banderaro iniziò a sventolare la bandiera principale dell’armata navale. Le galee, vedendo lo sventolio della bandiera da sopra la muraglia, a voga forzata presero terra e appoggiarono una scala inferiore ai due metri. Il primo a salirvi sopra fu il Carafa. Quest’ultimo, sempre insieme al Diedo, che lo aveva seguito, raggiunse il torrione e qui ebbe un duello con alcuni spagnoli. In breve, gli uomini in lotta si fecero più numerosi; furono uccisi cinque spagnoli e altri fuggirono per il finestrino della cupola in chiesa. L’inseguimento dei fuggitivi si svolse con una furia tale che, assaliti e assalitori, contrastandosi tra loro durante il passaggio dalla cupola, entrarono insieme. Gli spagnoli in ritirata si raccolsero dinanzi alla porta onde non permettere a nessuno di uscire dalla chiesa. Il Diedo fu il primo a entrare in chiesa. Il Carafa, che voleva uscire subito dalla chiesa per penetrare in città, fu trattenuto dal Diedo che lo consigliò di attendere i rinforzi. Arrivata una squadra di archibugieri, i veneziani uscirono dalla chiesa su due lati, da due porte. A causa della resistenza dei molfettesi gli invasori furono costretti a combattere casa per casa e palmo dopo palmo.

Al termine dei combattimenti i molfettesi contarono più di 400 morti. Il loro capo, il giovane Ferrante di Capua fu ferito e fatto prigioniero. Gli assalitori persero il Carafa ucciso da un sasso lanciato dai tetti, e poco mancò che un altro non uccidesse il Principe di Melfi. Questa resistenza e la morte del Carafa accrebbe l’ira dei soldati che iniziarono a commettere stragi e violenze. Un passaggio della cronaca di questa tragedia, descritta dal dottor Giuseppe Marinelli, testimonia che il numero dei molfettesi morti durante il saccheggio (Sacco), durato sino al giorno 20, raggiunse le mille unità. Il bottino di guerra fu elevato, tanto che una lettera riferisce di più di duecentomila scudi.

Presa la città, il Principe di Melfi (Sergianni Caracciolo) restò a presidiarla e vi fece alloggiare le sue truppe che furono mantenute a spese dell’Università. Subito dopo, per aumentare la difesa militare, furono abbattuti tutti gli edifici, chiese e monasteri situati nel borgo, di fronte alle mura.

Il 3 agosto 1529, Francia e Spagna concordarono la cessazione delle ostilità. Per la Puglia, la pace sottoscritta a Cambrai aveva stabilito la cessione di Barletta e delle terre tenute dai Francesi, delle città di Trani e di Monopoli, e di tutto quello che apparteneva ai Veneziani. Il Principe di Melfi all’inizio del mese di novembre lasciò Molfetta portando via con sè quello che potè razziare.

Il 6 dicembre 1529, con l’uscita delle truppe di occupazione francesi, Molfetta tornò sotto il dominio spagnolo.
Un episodio di guerra lontano ma da tenere bene a mente considerata la sua attuale crudezza.

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